È Natale, pattinare un po’ sul giradischi della fantasia è concesso
Questa volta non vi parliamo degli album che da poco sono stati pubblicati, non delle nuove uscite belle o brutte, ma di dischi che sfortunatamente non hanno mai visto la luce perché, per un motivo o per l’altro, l’artista non ha potuto/voluto realizzarli. Come sarebbero stati i Led Zeppelin oggi? I Nirvana avrebbero avuto una svolta dubstep? Avremmo visto Jimi Hendrix in un G3 con Stevie Ray Vougan e Randy Roads?
“A Natale puoi fare quello che non puoi fare mai” recita un pandoroso adagio che riecheggia puntuale ogni anno in questo periodo, e allora facciamo quello che non potremmo fare mai. Ecco i dischi che vorremmo uscissero.

Queen – Heaven in You
Dopo qualche anno di meritato riposo dopo un tour mondiale di non poco conto, il ritorno discografico di Freddie Mercury e soci conferma il loro status di dei immortali del rock. Certo, dopo oltre trent’anni di carriera qualche scricchiolio c’è (“Yesterday morning” fin troppo autocitazionista), e Roger Taylor ha rotto un po’ le balle a fare a tutti i costi la prima donna (vero è che i cori in “Just Break The Wall Again” e la sua interpretazione vocale in “Stardust” sono di tutto rispetto), ma è impossibile rimanere indifferenti a perle come “The Eye”, “Imaginary Man” e “Stand Up”. Non male per dei vecchietti.

Led Zeppelin – Led Zeppelin XI
Tra un tour solista di Plant e qualche disco del side project di Bonham, Tenacious D, I Led Zeppelin sono finalmente tornati alle origini, o quasi. Page se la cava alla grande negli arrangiamenti, e i suoi assoli sporchi (i maligni li definirebbero impastati) piacciono o non piacciono, senza mezze misure. Ma la classe non è acqua, diceva un grande filosofo, e tant’è: avranno i loro difetti, Plant come è ovvio che sia non potrà più fare gli urletti orgasmici di un tempo, tuttavia questo è Rock con la “R” maiuscola, ascoltare “Running In The Shadow” per credere. Realizzato perché volevano realizzarlo, non per chissà quali obblighi contrattuali. E si sente, per fortuna. Bentornati.

Nirvana – Dear Boddah
Fosche nubi si addensano sulla band americana. Conclusasi l’ondata della Generazione X e del successivo “post grunge”, da una decina d’anni a questa parte i Nirvana hanno proseguito con alti e bassi. Questa volta il canovaccio sembra quello di 22 anni fa: “In Utero” suscitava presagi foschi, ammissioni di esser stanco di quella vita che stava conducendo, ma Cobain è riuscito nel corso del tempo a rimettersi in sesto, a pensare un po’ alla famiglia e continuare a usare la musica come valvola di sfogo. “Dear Boddah” fa tornare in mente quel periodo, o meglio, le sensazioni di quel periodo: una persona afflitta, per non dire rassegnata. Voler riprendere una canzone come “You Know You’re Right” e trasformarla in un requiem di pianoforte e viola fa rabbrividire per le emozioni che emana, eppure sembra un segno chiaro che qualcosa non va.

Jimi Hendrix – Fire In Our Shine
Certo che ascoltare “Voodoo Child” con Hendrix, Malmsteen e Steve Vai fa un certo effetto. Ma anche il nuovo materiale, estremamente sperimentale ed affascinante (“Everything Is Missing”, “Gone”, “Soul In Soul”), è straniante eppure dannatamente convincente. Nonostante molti pensino il contrario, mister Hendrix non ha perso il tocco. Semplicemente, si è evoluto, ha fatto proprie le modificazioni accorse lungo i decenni. E lo ha fatto dannatamente bene.

Tool – Ascending Delay
Ci hanno fatto penare, oramai le probabilità che uscisse un loro nuovo album erano vicine a quelle di trovare ancora oggi la cartuccia dorata di Legend Of Zelda. Ed eccoli qui, quegli stronzi di Maynard e compagnucci. Stronzi, sì, ma come non fai a voler bene a questi squinternati quando ripagano tutto il tempo che ci hanno messo per regalarti questo disco (primi capelli bianchi e grandi stempiature a parte)? “Octopus” è una suite di 16 minuti che non stanca mai, con continui cambi di tempo su cui il signor Petrucci dovrebbe riflettere e prendere appunti, “Shadow Of Colossus” è mastodontica (nomen omen), “Elegy Of Eternity” sembra quasi una presa per il culo, ma è un altro pezzo da novanta di tutto rispetto. Ci avete messo un decennio, va bene, avete tirato fuori un altro capolavoro. Però ora, march, pedalare e lavorate un po’ più sulla puntualità, che non vorrei avere il bastone della vecchiaia per la prossima vostra pubblicazione.

Kai Hansen feat. Al Bano – Helloween Is My Wine
Non è uno scherzo, ma ci sono riusciti, che vi piaccia o no. “Happiness”, “Wall Of Jehico”, “Helloween”, “Amanda Is Free”, “Và Pensiero” e “Eagle Fly Free” con la voce pugliese d’eccellenza e la chitarra teutonica più famosa del power metal è un gubilio di tamarragine e goduria. Per pochi eletti.
Andrea Mariano
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